Un Meteor in Corsica – Cap. 5

Una delle preoccupazioni che avevo nell’andare in Corsica con Perla Nera era quella di poterci trovare in condizioni meteo avverse senza avere la possibilità di ridossare rapidamente. La parte occidentale dell’isola è esposta a una delle della bocche di fuoco più potenti del Mediterraneo, il temibile Golfo del Leone, casa del Mistral, il nostro Maestrale, capace di frustate temibili e lunghe anche giorni. Quando spara il Maestrale dal Golfo del Leone con vento sostenuto, tutto il bacino ovest del nostro mare ne risente, in modo impressionante. Capo Corso e le Bocche di Bonifacio deviano e accelerano il vento, scatenando libeccio e maestrale, verso tutte le nostre coste occidentali.

Essere lì, sopravvento, mi preoccupava un po’ nel caso di arrivo del Maestrale.

Per nostra abitudine controlliamo il meteo più volte al giorno, anche perché negli ultimi anni le previsioni sono diventate meno affidabili, probabilmente colpa del cambiamento del clima e quindi di una minore consistenza dei dati rilevati finora nel nuovo assetto globale del pianeta.

Avevamo capito che sarebbe arrivato il Maestrale, quello serio. Quasi tutti i siti lo segnalavano. Il giro di consultazioni dei siti meteo segue una sequenza più o meno ricorrente: controllo delle previsioni a 4h, a 8h, giorno successivo, due-tre giorni, sette giorni per capire se si preannuncia qualcosa di grosso a lungo termine. Controlliamo con le app sui nostri smartphone Android  MeteoConsult Marine, Windy, LAMMA. Il fatto è che spesso sono in contrasto tra loro, non solo per direzione e intensità di vento e onde, ma anche proprio sulle previsioni… allora guardiamo anche Windfinder e 3B Meteo, che spesso peggiorano la confusione. Per me la Bibbia è il Meteomar dell’Aeronautica Militare, che di solito consulto via Web, utilizzo molto più comodo dell’ascolto sul canale 68 del VHF, in cui sei costretto a prendere appunti. Purtroppo il Meteomar è il più affidabile ma a breve, e nelle tendenze si può capire in modo molto generico come sta andando a parare la situazione. Completo le riflessioni su cosa accadrà consultando le carte di forecast reperibili in rete e  appuntando ogni 3 ore i valori del barometro, dell’igrometro, del termometro e dei capelli imbizzariti della Prodiera: se si arricciano ancora di più, piove, se rimangono normali, tempo costante. Stavolta però tutti i siti preannunciavano l’arrivo del Maestralone, di quelli che LAMMA disegna con il colore “rosso scappa”, tonalità che invita alla fuga immediata. Maestralone che era previsto dopo due giorni dopo.

“Dobbiamo riandare di là”, dico alla Prodiera, intendendo verso l’Italia.

Lasciare Ghignu è un dolore per la meraviglia del contatto con la selvaggia Corsica e per un ritmo di vita fatto di mare, vento e sé stessi. “Sì” è la laconica risposta.

Cominciamo a pianificare il rientro, con partenza il giorno dopo e possibile scalo alla Capraia, per poi arrivare il giorno successivo all’Elba, che ha molti ridossi dal Maestrale, già nella rada di Portoferraio, ma ancora di più, ovviamente, sui suoi lati est e sud. Decidiamo di non fare soste sul “dito”. O forse sì?

“Potremmo ancorare davanti al dito e poi tirare il giorno dopo fino a Procchio…”

“No, guarda, io direi Capraia e poi Elba”

“Ma perché non scapoliamo il capo e andiamo a vedere Macinaggio?”

Per farla breve, ogni decisione – dai posti da vedere all’ancoraggio –  è diventata ormai un affare di Stato. Hai voglia a dire che in barca comanda una sola persona! Quando si tratta di una coppia, le dinamiche sono le stesse di Sandra Mondaini e Raimondo Vianello, a meno che non ci sia una situazione complessa, per cui la Prodiera fa un passo indietro e lascia decidere me, se non altro perché la paura a fronte di mare grosso o problemi seri le attanaglia la gola…

Per fortuna non era una situazione complessa e quindi la mattina del giorno dopo, di buon ora al primo chiarore, salpiamo, lasciandoci alle spalle Ghignu. Solita situazione di vento variabile, c’è, diminuisce, ritorna, si va di motore, si ritorna alle vele e poi con un buon grecalino con mure a dritta, risaliamo il dito, vedendo scorrere le immense montagne di Capo Corso. Da lontano rivediamo Nonza, poi Centuri e finalmente “l’angolo” ovest di Capo Corso. Abbiamo tutte le vele a riva, randa piena e genoa. Mentre sono al timone, vedo che il colore del mare, a ovest del capo, cambia nettamente.

“Barbara, mi sa che lì spara…”, per dire che probabilmente non è esattamente lo stesso gradevole venticello che ci sta accompagnando, ma che troveremo qualcosa di serio. “Vediamo più da vicino, poi decidiamo”.

Continuiamo ad avvicinarsi fino ad arrivare a 100m circa a sudovest del capo. L’aria rinforza. La Prodiera entra nel suo stato di silenzio quando ci sono situazioni complesse. Ci avviciniamo al  punto dove potremmo accostare a dritta per scapolare il capo, per le sue quasi 4 miglia di larghezza da Punta di Corno di Becco a Pointe d’Agnello, da W a E.

Arriva una cannonata!

C’era vento da E che stretto dal capo e dallo scoglio della Giraglia prendeva rabbiosamente velocità, come fosse una fiera incatenata, e mordeva onde e schiuma!

Barbara ritrova la parola e suggerisce una cosa molto saggia:

“Torniamo indietro quello che basta per ridossare e prepariamo la barca”.

Ho creato un mostro! Da una ragazza che planava sul windsurf senza neanche conoscere le andature, ora mi ritrovo una tosta in grado di ragionare sulle cose giuste da fare in situazioni imprevedibili. Spero non mi chieda l’aumento di stipendio: dovrei impapocchiare false risposte tipiche di certi manager d’azienda che non hanno ancora capito il valore delle persone e del rapporto di fiducia che va creato con essi. E quello stile non mi piace.

“Dai, spostiamoci” le dico, poggiando per arretrare, fino a ridossarci al traverso di Capo Bianco. Prendiamo una mano sulla randa, mettendoci alla cappa. Poi, prua al vento, ammainiamo il genoa e Barbara prepara e alza il fiocco. Indossiamo i giubbotti autogonfiabili che fanno anche da imbragatura e usiamo le life line, agganciandole nel pozzetto. Indossiamo le giacche e ripartiamo.

Arriviamo alla ‘porta’ e il vento è ancora aumentato. Sono le 11 del mattino, c’è onda di oltre un metro, schiuma, ci saranno 20-22 nodi, lo vedo dal tipo di onda e dalla frequenza delle ‘ochette’. Sottocoperta abbiamo l’anemometro, ma sono dell’idea che conoscere l’intensità del vento serva solo nei racconti: il vento lo vedi dal mare e dalla reazione della barca e da lì devi sapere come trovare il giusto equilibrio. Conoscerne la velocità in nodi non ti cazza le vele. Le onde sono vicine, ripide e sollecitano Perla Nera. Ingrasso le vele, per dare più spinta sull’onda. Apro il carrello randa e posiziono il punto di scotta del fiocco tutto arretrato, in modo da farlo sventare in alto, dove il vento spinge di più. Lasco la randa, per tenere la barca in assetto sotto quella spinta. Perla tiene la rotta e tiene l’assetto, ma di fatto non guadagna verso est sia per lo scarroccio, sia per le onde che la frenano notevolmente.

Facciamo un primo tratto mure a dritta, tra schizzi e montagne russe. Chiamo la virata, che non dobbiamo sbagliare, per cui chiudo lo stralletto per facilitare il passaggio del fiocco a pruavia dell’albero e viriamo. Ricazziamo lo stralletto e cazzo il paterazzo di nuovo, per ridurre la catenaria dello strallo di prua.  Perla continua a sbattere e non guadagniamo metri, anche se teniamo bene la bolina.

“Barbara, forse è il caso di ridossarci e aspettare”.

Una cosa che ho imparato in tanti anni tra regate e mare vero, è che un conto è portare barca ed equipaggio al limite in regata, situazioni protette, assistite e con barche appoggio, un conto in mare vero , dove ogni rischio eccessivo può avere un costo altissimo.

“Sì, forse è meglio”, dice dalla sua cerata in cui si è nascosta, lasciando uscire solo la sua montagna di ricci biondi.

“Vediamo se cala e poi riproviamo”, dico, sapendo però che nelle ore successive il vero maestrale si sarebbe avvicinato sempre di più, il che mi dava preoccupazione. Volevo togliermi da quella situazione e puntare ad approdi sicuri e protetti dal Maestrale. A un certo punto noto un barchino a motore che avanzava ridossandosi sotto la costa di Capo Corso, procedendo anche lui da ovest verso est, quindi puntando proprio nella stessa direzione in cui volevamo andare.

“Proviamo a motore, ridossandoci via via nelle calette e puntando a est, come fa quella barca”, dico a Barbara.

Proviamo. Ammainiamo il fiocco, ammainiamo la randa, accendiamo Amilcare, il nostro Selva 4T da 4HP e cominciamo la processione. Il barchino aveva un motore diesel e andava via bene contrastando le onde, distanziandoci rapidamente. Noi, mentre pregavamo che il nostro fuoribordo non avesse il catarro, avanzavamo così lentamente che mi sono chiesto se dalla avveniristica torre di controllo-faro che è sulla sommità di Capo Corso, gli addetti francesi non ci stessero osservando, pronti a ridere di noi italiani con bandiera belga inchiodati tra le onde. Tenevo d’occhio il faro per capire se avanzavamo: sì! Avanzavamo! Un paio di metri all’ora!! Che performance!

Poi una intuizione: “Barbara, alza il fiocco  – vedrai che anche se dovremo bordeggiare la vela aiuterà il motore – dovrebbe andare meglio”. La Prodiera alza il fiocco che comincia a tirare e in effetti aumentiamo la velocità. Finalmente avanziamo sul serio. La vela  crea quella spinta a prua tale da superare meglio l’onda, il motore spinge da poppa e non essendoci randa, la barca è dritta, offrendo tutta la sua deriva contro lo scarroccio. Si va!

Facciamo dei bei bordi lunghi, avvicinando anche la Giraglia, cercandone il riparo dal vento per qualche attimo e finalmente possiamo fare gestacci al faro-torre di controllo, che severamente e in tono di sfida ci guarda beffardo e severo. Adieu, mon ami!

Abbiamo finora impiegato più tempo intorno al Capo, che per arrivare qui da Ghignu, ma finalmente siamo ben oltre la metà. E siccome la fortuna aiuta gli audaci, il vento cala leggermente e così le onde, per cui alziamo di nuovo la randa, sempre con una mano e spegniamo lo stanco Amilcare. Incrociamo un’altra barca, ben più grande, ma non meno sbandata, ci salutiamo.

E’ fatta. Siamo passati. Uscendo da Capo Corso alziamo anche il genoa, che Barbara ha preparato in uno dei suoi innumerevoli cambi vela.

Stanchi ma soddisfatti, cominciamo a pensare dove atterrare, dato che di fatto ancora non lo abbiamo deciso.

“Capraia?” – “boh, non mi attira…”

“Macinaggio?” – “no, meglio mettere miglia tra noi e il Maestrale, puntiamo verso l’Elba”

“Fetovaia?” – “c’è mare da sud, meglio rimanere sopra”

“Portoferraio?” – “per stare ridossati bisogna andare verso i cantieri e poi è più lontana…”

Alla fine decidiamo di andare verso il golfo di Procchio, in una bella insenatura che è Cala Paolina, che un paio di anni prima avevamo assaporato per la quiete e la bellezza del posto. Andata! Si va a Cala Paolina, anche perché dell’ETA (Estimated Time of Arrival – cioè orario in cui finalmente ti puoi buttare in cuccetta) del nostro GPS, saremmo arrivati intorno alla mezzanotte, cioè col buio. Conoscendo la zona, ci sentivamo più tranquilli.

Dopo Capo Corso, l’avvicinamento verso l’Elba è stato piacevole, a parte l’attenzione necessaria nell’attraversare il canale commerciale tra Corsica e Elba che è frequentatissimo, sia da palazzi viaggianti delle navi crociera, sia dai cargo. Tra l’altro Barbara ha l’attitudine di avvistare e annunciare come ‘pericolo’ anche un pattino che esce dal Canale dei Pescatori a Ostia mentre noi siamo all’Elba, quindi c’è sempre una operazione di filtro e verifica da parte mia sull’informazione ricevuta. Ma quando ha detto: “Siamo sulla rotta di collisione con quel cargo”, dopo essermi pentito di averle insegnato a controllare se l’angolo tra Perla e un altro oggetto rimane costante (indicazione di rischio collisione), ho dovuto ammettere che il rischio c’era. Ci avvicinavamo e l’angolo, traguardato osservando il cargo allineato con le sartie, non cambiava. Nonostante fossimo a vela, di certo non ci avrebbe dato precedenza, anche perché un ‘giocattolo’ di quel genere non manovra come un barchino di 6 metri.

Eravamo di bolina larga, con vento medio da sud. “Orziamo al massimo, e facciamolo ora, così da passargli a poppa ma distanti”. Quest’anno abbiamo messo il riflettore radar per essere visti dalle grandi imbarcazioni ma non ho voglia di verificare ora se veramente funziona…

Accostiamo a dritta, stringendo il vento. Il mostro, pieno di scatole coloratissime in un tetris di container, passa, come un leviatano cieco, e alza a poppa una serie di onde che sono muri. Con sincerità sono peggio quelle alzate dai motoscafari, ma queste erano in una serie superiore.

Si balla un po’, prendendo le onde al mascone, e poi si attraversa la scia del mostro, tornando alla tranquillità.

Procediamo godendo del tramonto e delle stelle e più tardi, quando decide di farsi vedere, anche della luna.

La navigazione notturna ha un fascino incredibile. Se non c’è la luna, ogni luce sembra amica. Ancor di più i fari, che veramente ti guidano e ti confortano. Con tutta la tecnologia e la cartografia elettronica, che dà immediato riscontro su dove sei, semplificando la navigazione  rispetto al passato in cui si andava di carta e navigazione stimata quando non si poteva usare il sestante, l’avvistamento di un faro, del ‘tuo’ faro è come riconoscere il sentiero di casa dopo una escursione faticosa. Ti senti già meglio.

E così avviciniamo l’Elba, puntando alle luci di Marciana Marina e poi proseguendo verso est, dentro Golfo di Procchio.

E’ buio, ma la luna e soprattutto la potente lampada a led, utilissimo acquisto dell’anno scorso che Barbara usa dal pulpito di prua, ci guidano nell’atterraggio a motore, cercando l’ancoraggio alla giusta distanza dalle barche che stanno già dormendo in rada.

Abbiamo navigato per 60 miglia tutte d’un fiato, 18 ore di fila dalle sei di mattina a mezzanotte, dandoci il cambio al timone, cambiando vele e prese di terzaroli, andando di motore, dormicchiando a turni, mangiando pasti frugali durante l’arco della giornata.

Ma è questa la vita che amiamo!

 

(cont.)